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IN ME LA NOTTE NON FINISCE MAI: GENESI E SVILUPPO DI UN MOSTRO - EP.11

  • Alessandro Cariulo
  • 14 ago 2020
  • Tempo di lettura: 6 min


Una delle domande più classiche, non sono quando si parla di Mostro di Firenze ma di fatti criminali in generale, è: com’è che una persona si è trasformata da uomo comune in brutale assassino? Leggendo con attenzione il manuale “Anatomia del crimine in Italia” (De Luca, Macrì & Zoli, 2013) mi sono imbattuto in una teoria che merita un’analisi approfondita. Secondo il criminologo Lonnie Athens, la nascita del comportamento criminale di un soggetto, non è strettamente legato, o almeno non soltanto, alla presenza di disturbi psicopatologici, ma è dovuto all’apprendimento e adattamento a sistemi culturali e normativi diversi da quelli della società civile, basati principalmente sulla violenza. Secondo questo Autore il processo si compone di quattro fasi:

- Prima Fase, la brutalizzazione: nella fase evolutiva il soggetto può entrare in contatto con la violenza, sia in modo diretto (subisce direttamente azioni violente) che in modo indiretto (assiste ad episodi violenti soprattutto all’interno del suo contesto familiare). Una serie di esperienze di questo tipo possono accumularsi e creare delle vere e proprie ferite nel soggetto, avviando un processo di apprendimento all’interno del quale la violenza può essere vista come unica soluzione per risolvere ogni problema. Questa fase risulta a sua volta suddivisa in tre sottofasi:

o Sottomissione violenta: presenza di figure autoritarie presenti nei gruppi primari di cui il soggetto fa parte e che usano la violenza per sottomettere una vittima annullando la sua personalità e obbligando all’obbedienza con coercizione, minacciando di mettere in atto una violenza, o con la ritorsione, che altro non è che una punizione, in cui la violenza è agita.

o Orrificazione personale: il soggetto assiste ad una scena di violenza in cui sono coinvolte persone con cui ha un legame affettivo, vi può assistere in modo diretto osservando o anche solo ascoltando, fantasticando quindi sulla vicenda. Si crea così un’atmosfera di paura e rabbia nei confronti dell’aggressore, inizia a fantasticare una difesa della vittima, ma nella realtà non è in grado di fare molto e così sviluppa un forte senso di colpa. Quello che conta non è tanto la realtà dei fatti, cioè se il soggetto può effettivamente intervenire, ma la sua percezione soggettiva di impotenza, che ne accresce la rabbia. Se la sottomissione violenta agisce più sul piano fisico, l’orrificazione personale agisce più su quello psicologico.

o Addestramento violento: in questo caso l’addestratore è sempre un adulto violento, che si trova in posizione autoritaria, un personaggio di cui il soggetto si fida e sia credibile ai suoi occhi. Solitamente l’addestratore violento afferma che il mondo è fatto di persone malvagie, che non ci si può fidare di nessuno, e che il ricorso alla violenza è l’unico modo per imporre il proprio dominio sugli altri. Per fare questo l’addestratore ricorre ad alcune tecniche motivazionali come: vanaglorificazione (racconta aneddoti in cui ha reagito con violenza ad aggressioni), derisione (il soggetto viene schernito quando non reagisce con violenza ad una provocazione), minaccia di punizioni fisiche, arringa (ripetizione ossessiva di istruzioni per mettere in atto comportamenti violenti), l’assedio (soggetto viene bombardato da stimoli violenti e coercitivi fino a quando non cede e mette in atto comportamenti violenti).

La Fase della brutalizzazione, per determinare lo sviluppo del soggetto, deve attraversare tutte le tre fasi sopraindicate e in genere deve avvenire entro i primi anni dell’adolescenza. Tale fase porta uno stato di confusione nel soggetto che creerà terreno fertile per l’ingresso nella fase successiva.

- Seconda Fase, la belligeranza: il soggetto si ritrova in uno stato di turbamento, si chiede perché questa situazione sia capitata a lui, presenta uno stato di confusione rispetto alla sua immagine e inizia a desiderare di cambiare in qualche modo il corso degli eventi, vuole impedire che qualcuno possa ancora umiliarlo, sottometterlo e approfittarsi di lui. È a questo punto che il soggetto inizia a pensare che la violenza è necessaria per ottenere ciò che vuole, ecco che quindi si passa alle prime aggressioni vere e proprie, un fenomeno che Athens definisce risoluzione violenta mitigata.

- Terza Fase, le prestazioni violente: il soggetto si chiede se davvero sarà in grado di passare dal ruolo di vittima a quello di aggressore, ribaltando la situazione vissuta fino a quel momento. Quando ci sarà il primo evento violento vero e proprio, ciò che risulterà da esso, in particolare a livello psicologico ed emotivo, sarà determinante nel consolidare questo comportamento, che poi verrà ripetuto in futuro (vittoria significativa). In caso di sconfitta il soggetto si troverà davanti ad una scelta: abbandonare questa strada, forse non adatta a lui, oppure tentare nuovamente con maggiore energia.

- Quarta Fase, la virulenza: a questa fase si accede solo in caso di vittoria significativa, cioè se si ottiene una qualche gratificazione personale dalla messa in atto del comportamento violento. È qui che il soggetto rielabora e ristruttura la propria immagine, anche grazie al feedback che riceve dall’ambiente esterno, soprattutto grazie ai media e alla percezione dell’opinione pubblica. L’immagine di “pazzo criminale”, “maniaco omicida”, “mostro” o “killer spietato e sadico” che spesso viene veicolata dai media non viene vista negativamente dal soggetto, anzi, gli trasmette sicurezza e coraggio, tutto questo lo rende pericoloso agli occhi del resto del mondo. La violenza gli ha così dato forza, potenza e controllo, per la prima volta si sente padrone del suo destino (esperienza di malevolenza).


Per quanto riguarda l’aspetto preventivo, come afferma lo stesso Athens, non è semplice interrompere il processo una volta iniziato. La Fase di brutalizzazione avviene sempre nell’ambito del gruppo dei pari o nel contesto familiare e l’addestratore violento è sempre una figura con cui il soggetto ha un legame di attaccamento, una figura di riferimento verso cui nutre sentimenti ambivalenti di amore/odio ma dal quale è difficile staccarsi. Nella Fase della virulenza la riabilitazione risulta ancora più complicata, tanto da individuare come unica alternativa, volta ad impedire la messa in atto di comportamenti violenti, l’isolamento del soggetto dal resto della comunità. Si tratta di un processo che può non essere valido per ogni tipo di criminale, ma sicuramente ha il suo interesse quando si parla di criminali psicopatici o serial killer e, ad avviso dello scrivente, si tratta di un modello di spiegazione molto valido per capire la genesi e lo sviluppo del comportamento criminale, e in particolare omicida, del soggetto noto con il soprannome di Mostro di Firenze. In questa ottica potrebbero essere interpretati anche i delitti del 1968 (per chi lo esclude dalla serie potrebbe essere parte della Fase di brutalizzazione del soggetto), con assenza di comportamenti rituali post-mortem, almeno nei termini che tutti conosceranno a partire dal delitto successivo, e quello del 1974 appunto, con il tralcio di vita e l'overkilling sulla vittima femminile e anche su quella maschile, descrivendo un chiaro processo evolutivo nelle fantasie del soggetto che lo ha condotto fino al successo del giugno 1981. Due tentativi, o uno, non andati a buon fine e che però hanno spinto il soggetto a riprovare È proprio da qui che nasce la figura e il mito del Mostro di Firenze, l’assassino di coppie che asporta il pube delle vittime femminili. Il killer si crea un personaggio, contraddistinto da alcuni elementi chiave che subito fanno pensare a lui: uccisione di una coppia, uso della stessa pistola e delle stesse munizioni, a volte mutilazioni sulle vittime femminili. Questo personaggio, così strutturato, si definisce e si presenta al grande pubblico, come già detto, a partire dal giugno 1981, e poco importa al killer se nel giugno 1982 e nel settembre 1983, per motivi diversi, non potrà effettuare le ormai famose escissioni. Ormai il personaggio è definito, perfezionato di volta in volta da spunti ottenuti da filmografia e letteratura di stampo horror-thriller-erotico, e l’uso della famosa Beretta calibro 22 unita all’uccisione di una coppia in un luogo appartato, sono elementi sufficienti a ricondurre a lui gli omicidi. L’obiettivo del killer è quello di affermarsi come brutale assassino e, forse, come moralizzatore e custode delle tradizioni culturali e religiose di una volta. In ogni duplice delitto si può individuare un particolare elemento che in qualche modo si può individuare sulla scena del crimine o nei comportamenti messi in atto dopo il delitto, tutte azioni volte ad accrescere l’attenzione intorno alle sue gesta. Ed è proprio in riferimento a questo processo di violentizzazione che, in conclusione, tornano alla mente le parole del Dottor Perugini che, durante una trasmissione in diretta RAI, si rivolse al presunto killer invitandolo a liberarsi di un peso, dalla schiavitù di un evento accaduto molti anni prima e che ne guidava inesorabilmente l’agire.

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